È morto a 92 anni Alberto Paolini, scrittore e poeta che da bambino venne internato in manicomio senza alcuna diagnosi di malattia mentale. Per oltre vent’anni, dopo la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Roma, Paolini ha dedicato la vita a raccontare ciò che aveva visto e subìto, diventando una delle voci più limpide e dolorose della memoria manicomiale italiana prima della legge Basaglia.
L’escapologia — l’arte di liberarsi da costrizioni fisiche come catene, corde o camicie di forza — è tradizionalmente associata al grande Houdini. Ma se l’illusionista sfidava i vincoli davanti al pubblico, per Paolini l’evasione è stata soprattutto interiore: un incessante tentativo di sottrarsi ai legacci dell’istituzione totale, del silenzio e della dimenticanza.
Viene visitato da diversi specialisti: nessuno riscontra problemi psichiatrici. Eppure, per il rifiuto dell’orfanotrofio e della famiglia adottiva, Paolini finisce comunque nell’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà, a Roma. Da quel momento, il silenzio: i preti, gli insegnanti, la benefattrice svizzera, persino sua sorella — anch’ella in un altro istituto — smettono di cercarlo. A quindici anni viene trasferito al famigerato Reparto VI, dove gli internati sono sottoposti a elettroshock.
Con il tempo Paolini riesce a ottenere il trasferimento al Reparto XX, la sezione destinata a chi è in grado di lavorare. Sfugge alla terapia dell’elettroshock, ma non all’etichetta che le suore gli sussurrano alle spalle: “il bambino dell’elettroshock”. È in quella fase che nasce il suo bisogno di scrivere. Non gli è permesso avere quaderni o penne, così escogita un metodo ingegnoso e clandestino: foglietti minuscoli, arrotolati, nascosti nelle maniche o nelle scarpe, protetti dalle tasche troppo piccole dei pazienti.
Scrive di tutto: emozioni, ricordi, riflessioni, versi. Una pratica ostinata e precisa, un rito quotidiano che gli permette di mantenere lucidità, identità, speranza. Da quei frammenti nascerà molti anni dopo il suo libro più importante, Avevo soltanto le mie tasche (Sensibili alle foglie), che raccoglie i manoscritti composti tra le mura del manicomio.
Paolini lascerà la clinica soltanto alla fine degli anni Novanta, quando ha ormai quasi settant’anni. Gli ultimi vent’anni della sua vita li dedicherà alla memoria, alle testimonianze pubbliche, agli incontri nelle scuole.
La scrittura — quella stessa pratica segreta nata per necessità — diventa così non solo il filo che lo ha tenuto ancorato alla ragione, ma anche una forma di giustizia tardiva: il suo modo di evadere, finalmente, dalla camicia di forza dell’oblio.
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