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giovedì 20 novembre 2025

Paolini, la poesia come escapologia dal manicomio


È morto a 92 anni Alberto Paolini, scrittore e poeta che da bambino venne internato in manicomio senza alcuna diagnosi di malattia mentale. Per oltre vent’anni, dopo la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Roma, Paolini ha dedicato la vita a raccontare ciò che aveva visto e subìto, diventando una delle voci più limpide e dolorose della memoria manicomiale italiana prima della legge Basaglia.

L’escapologia — l’arte di liberarsi da costrizioni fisiche come catene, corde o camicie di forza — è tradizionalmente associata al grande Houdini. Ma se l’illusionista sfidava i vincoli davanti al pubblico, per Paolini l’evasione è stata soprattutto interiore: un incessante tentativo di sottrarsi ai legacci dell’istituzione totale, del silenzio e della dimenticanza.

La sua storia comincia in un orfanotrofio, dopo la perdita di entrambi i genitori. Qui subisce la severità dei preti e il bullismo dei ragazzi più grandi, finché una donna svizzera, benestante, decide di adottarlo. Ha dodici anni, e per un momento sembra intravedere un futuro diverso. Ma dopo appena due mesi la donna lo riporta in collegio:
«È troppo taciturno, sembra sempre triste. Ha qualcosa che non va».

Viene visitato da diversi specialisti: nessuno riscontra problemi psichiatrici. Eppure, per il rifiuto dell’orfanotrofio e della famiglia adottiva, Paolini finisce comunque nell’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà, a Roma. Da quel momento, il silenzio: i preti, gli insegnanti, la benefattrice svizzera, persino sua sorella — anch’ella in un altro istituto — smettono di cercarlo. A quindici anni viene trasferito al famigerato Reparto VI, dove gli internati sono sottoposti a elettroshock.

Nelle sue memorie scrive:
«Avevo 15 anni, appena ho sentito che ero destinato all’elettroshock ho avuto l’impressione che tutto mi crollasse addosso. Ero preso dalla paura. Dopo il trattamento mi sentivo ferito dentro: come se qualcuno avesse violentato la mia anima, come se si fosse introdotto in un posto che apparteneva solo a me per devastarlo».

Con il tempo Paolini riesce a ottenere il trasferimento al Reparto XX, la sezione destinata a chi è in grado di lavorare. Sfugge alla terapia dell’elettroshock, ma non all’etichetta che le suore gli sussurrano alle spalle: “il bambino dell’elettroshock”. È in quella fase che nasce il suo bisogno di scrivere. Non gli è permesso avere quaderni o penne, così escogita un metodo ingegnoso e clandestino: foglietti minuscoli, arrotolati, nascosti nelle maniche o nelle scarpe, protetti dalle tasche troppo piccole dei pazienti.

Scrive di tutto: emozioni, ricordi, riflessioni, versi. Una pratica ostinata e precisa, un rito quotidiano che gli permette di mantenere lucidità, identità, speranza. Da quei frammenti nascerà molti anni dopo il suo libro più importante, Avevo soltanto le mie tasche (Sensibili alle foglie), che raccoglie i manoscritti composti tra le mura del manicomio.

Paolini lascerà la clinica soltanto alla fine degli anni Novanta, quando ha ormai quasi settant’anni. Gli ultimi vent’anni della sua vita li dedicherà alla memoria, alle testimonianze pubbliche, agli incontri nelle scuole. 

La scrittura — quella stessa pratica segreta nata per necessità — diventa così non solo il filo che lo ha tenuto ancorato alla ragione, ma anche una forma di giustizia tardiva: il suo modo di evadere, finalmente, dalla camicia di forza dell’oblio.



*

Zitti! Smettete di gridare,
tornate al vostro lavoro.
Il mondo non ascolta la vostra voce
stordito da mille proteste,
da mille rivendicazioni.

Qualcuno che siede più in alto
di voi, al riparo
da qualsiasi legge,
ha deciso il vostro destino.

è vano invocare giustizia
o un poco di umanità.

** 
Al primo soffio, tiepido, d'aprile
tutto di fiori si ricopre il prato.
Si ridesta ogni nido, ogni covile
e la gioia ritorna al creato.

Ma nuova pena si risveglia nel cuore
di chi rinchiuso al manicomio sta,
e ripensa con più vivo dolore
alla sua casa e alla perduta libertà.

***
Come è possibile, mi domando a volte,
camminare sui prati verdi
e avere l'animo triste?

Essere immersi nel caldo sole,
mentre tutto d'intorno sorride
e avere l'angoscia nel cuore?

Lasciate a noi le vostre tristezze!
A noi che non possiamo andare nei prati
e non vediamo mai il sole.

****

Questi edifici rimessi a nuovo
queste squallide recinsioni
conservano il ricordo di tante sofferenze
il ricordo di tanti drammi ignorati.

Non sorridete voi che passate
non irridete le nostre stranezze
conserviamo anche noi i nostri drammi
il ricordo di tanti morti ignorati.

*****
Perché fisso lo sguardo spingi
di tra le sbarre di quella finestra,
povero pazzo?

Speri forse di rivedere
qualcuno dei tuoi?
Rassegnati. 
Tua madre non ti vuole più.
I tuoi fratelli ti hanno dimenticato.

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