La notizia della morte di Paolo Mendico, un bambino che ha deciso di togliersi la vita a causa delle umiliazioni subite dai coetanei, è un pugno nello stomaco che lascia senza respiro. Ogni volta che accade, ci ripetiamo che non dovrebbe più succedere, che “mai più” dovrebbe essere la parola d’ordine. E invece il tempo passa, le commemorazioni si consumano, e tutto ritorna come prima.
Il bullismo continua a mietere vittime nel silenzio, con la crudeltà cieca e spietata di chi non conosce ancora la misura del dolore che infligge. Le istituzioni parlano, lanciano campagne, celebrano giornate contro la violenza tra i giovani, ma le parole evaporano nel vento se non diventano azione, presenza, educazione viva e concreta.
Viviamo in una società che ha dimenticato il valore della responsabilità collettiva. I ragazzi vengono lasciati soli, consegnati a schermi che amplificano l’odio, ad ambienti scolastici dove spesso l’indifferenza vale più della cura. Si parla di “generazione fragile”, ma fragili non nascono: fragili li rendiamo, con l’assenza degli adulti, con la superficialità di famiglie distratte e di una scuola che troppo spesso abdica al suo ruolo educativo.
In questo vuoto, il piccolo Paolo ha gridato con il silenzio il dolore che nessuno ha voluto ascoltare. Il suo gesto estremo non è solo il fallimento dei bulli che lo hanno tormentato, ma il fallimento di una comunità intera che non è stata capace di proteggerlo.
Per lui, e per tutti i bambini che non hanno trovato rifugio, restano soltanto le parole:
Oggi ricordiamo Paolo con la dignità che gli è stata negata in vita. E chiediamo, con rabbia e con amore, che non diventi un nome tra tanti, che la sua morte non sia solo cronaca, ma memoria viva e monito. Perché il silenzio di un bambino è il grido più forte che una società possa sentire.
Fabrizio Raccis

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