Settantacinque anni fa, il 27 agosto 1950, Cesare Pavese sceglieva di togliersi la vita in una stanza d’albergo a Torino. Dieci bustine di sonniferi sul comodino, accanto ad una copia di Dialoghi con Leucò e ad alcuni biglietti che oggi suonano come colpi di martello sul silenzio della storia: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.»
Il gesto estremo di Pavese non fu un fulmine a ciel sereno. Il suo corpo portava dentro i segni di una fatica più profonda della stanchezza fisica: quella di vivere. La sua sensibilità, la sua capacità di ascoltare le pieghe più intime dell’animo umano, furono la sua grandezza ma anche la sua condanna. Pavese appartiene a quella schiera di poeti e scrittori del Novecento che hanno guardato troppo a lungo nell’abisso, finendo per soccombere.
La vulnerabilità dei poeti del Novecento
Il secolo scorso fu attraversato da guerre, dittature, disillusioni politiche, e i poeti ne furono spesso il termometro più sincero. A differenza di altri intellettuali, i poeti del ’900 non seppero – o non vollero – schermarsi dalla sofferenza. Non si tratta di debolezza, ma di una radicale vulnerabilità: la pelle sottile che permette di cogliere il respiro segreto del mondo diventa anche ferita sempre aperta.
Pavese condivide questo destino con figure come Dino Campana, Alda Merini, Amelia Rosselli, fino a Sylvia Plath e Paul Celan, fratelli e sorelle di dolore in una genealogia poetica segnata dal suicidio. La poesia del Novecento sembra quasi scritta con il sangue, con un’urgenza che oggi ci appare lontana, scolorita. Oggi viviamo in un’epoca che ha anestetizzato gran parte della propria sensibilità: i drammi esistono ancora, ma raramente trovano parole tanto necessarie e tanto incandescenti.
La morte come consacrazione
Paradossalmente, Pavese trovò nella morte quella considerazione che in vita non gli fu mai pienamente concessa. Seppure già noto come scrittore e traduttore, seppure stimato in ambito intellettuale, fu la tragedia della sua fine a farne un’icona. La morte, per certi autori, diventa un sigillo definitivo, un alone che li consegna all’eternità. È un fenomeno crudele: li celebriamo di più quando non ci sono più, quando non possono più sentirlo.
Pavese stesso, nei suoi diari, aveva intuito questa dinamica. In una delle ultime note de Il mestiere di vivere, scrive: «La letteratura è una difesa contro le offese della vita.» Ma la vita, alla fine, ebbe la meglio.
L’eredità oggi
A settantacinque anni dal suo suicidio, Pavese non è un autore “consolatorio”. Leggerlo significa confrontarsi con la malinconia, con il peso della solitudine, con l’impossibilità di colmare il vuoto che separa l’individuo dal mondo. Ma è proprio per questo che rimane essenziale: la sua opera è un monito contro la superficialità, una testimonianza che ci ricorda quanto sia fragile e insieme potente la condizione umana.
Forse il Novecento non ci appartiene più: il sentimento tragico dell’epoca appare oggi come un’eco lontana, sbiadita dal rumore quotidiano. Ma nel silenzio che rimane, la voce di Pavese continua a dirci che la poesia non è mai un lusso, bensì un atto di sopravvivenza.

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