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lunedì 12 ottobre 2015

RECENSIONE SU “CHIEDI ALLA POLVERE” DI JOHN FANTE

John Fante e il suo “non” capolavoro



Non ho ancora ben chiaro come si possa giudicare un romanzo “un capolavoro”. Questo perché non solo nella letteratura, ma anche nel cinema, e nell'arte in generale come nella pittura spesso sono incappato in opere definite in quel modo, dei “veri capolavori” che sinceramente, a dirla tutta, da semplice appassionato non mi hanno entusiasmato un granché.
È il caso di “chiedi alla polvere” di John Fante, l'edizione Einaudi del 2004, quella che vanta la firma dell'incontenibile Alessandro Baricco, il noto scrittore contemporaneo che nel suo entusiasmo scolaresco scrive un'introduzione disarmante e ingenua. Ingenua al punto da svelare ogni particolare intrigante del romanzo. Baricco non si limita solo a introdurre, Dio santo non so perché, forse non aveva mai scritto "intro" su altri libri più importanti dei suoi, forse si è lasciato prendere un po' troppo la mano, e ha svelato in undici dannate pagine la storia dall'inizio alla fine come il compitino perfetto di un povero saputello. Ma qualcuno ha mai spiegato a questo povero cristo che il finale di un libro, come di un film o di un racconto non si svelano mai? Sopratutto ai potenziali lettori, alle persone che possono avere un minimo di piacere personale nello sfogliare le pagine e leggere senza già sapere come finirà la storia. Ma questo è solo l'inizio.
Tempo addietro mi dicevano «hey, hai letto Fante?» ed io rispondevo “Fante chi?” «ma come chi!? Lo scrittore maledetto italo americano, quello del Bandini...quello che ha rilanciato il Bukowski!» Continuai ad avere la conferma che molti degli interessi e spunti letterari sul Fante, almeno in questo caso, erano puramente scaturiti dall'interesse verso Charles Bukowski, come dire osanniamo Buk perché oggi va di moda con i suoi modi “grezzi” e i suoi vocaboli scurrili e già che ci siamo, osanniamo pure Fante “lo scrittore preferito di Bukowski”!
Questo è quello che accade molto spesso nella scena letteraria italiana, molti leggono o si interessano a qualcosa solo perché è "chic", e tutti gli altri lo fanno. Non voglio entrare in un discorso commerciale, ma nessuno oggi si interessa realmente ad una lettura da mettere il sedere sulla sedia ed esaminare attentamente l'oggetto in questione.
Molti leggono Bukowski, ma in quanti si rendono conto della poesia che si cela in mezzo a tutta quella crudezza? Leggono i suoi racconti trasgressivi e provocatori, ma in quanti afferrano il vero significato o l'irriverente metafora della vita?
Nel caso di “Chiedi alla polvere” ho fatto un lavoro diverso rispetto ad altri libri che ho letto e recensito, questo perché ho avuto modo di confrontarmi con alcuni sostenitori accaniti del “capolavoro”, e ho voluto cercare con i miei stessi occhi di vedere in modo imparziale tutto il potenziale di questo libro. Ho letto due volte il romanzo, perché la prima volta già dal quarto capitolo la narrazione mi è apparsa mediocre, a tratti noiosa, nello scorrere degli altri capitoli forse preso dalla delusione verso le aspettative non sono riuscito a provare le emozioni necessarie per farmi catapultare nel mezzo della storia. Quindi ho dovuto rileggere una seconda volta il libro, raccogliendo così varie sfumature sia positive che negative.
Vagliando una seconda volta tutti i capitoli ho stilato delle preferenze, in modo scrupoloso ho esaminato al meglio la metodica e le qualità di questo autore definito “maledetto” dagli estimatori. Ma badate, maledetto lui e non le sue opere che grazie alla spintarella di Buk  ebbero una seconda occasione. Maledette le sue carni che disgraziatamente incapparono   in una forma gravissima di diabete che dopo averlo ridotto cieco e mutilato permise a Fante di terminare l'ultimo capitolo della sua saga di “Bandini” e tirare le cuoia poco prima della ristampa dei suoi libri.

In questo libro sono narrate le vicende di uno scrittore che cerca a tutti i costi di campare del suo presunto talento, si piange addosso, elemosina aiuti economici alla sua famiglia, s'innamora, grida e si dispera e poi a tratti rivede la luce. 
Eppure spesso, a parer mio, il tema scade nell'ovvio e se non fosse per alcuni spunti, come dei veri colpi di frusta, forse questo romanzo non avrebbe raggiunto la sufficienza.
I primi sette capitoli hanno un andamento lento a tratti monotono e raggiungono l'apice al nono, dove nel descrivere un appuntamento del Bandini con Camilla Lopez una delle donne protagoniste, l'atmosfera diviene pesante e forzata. Per fortuna già all'inizio del decimo capitolo tutto sembra riprendere quota proprio in occasione di un episodio che vede lo scrittore protagonista alle prese con la descrizione di una scena di sesso da lui vissuta. Bandini inizia a scrivere la trama di questo soft porno, tra l'altro molto in voga oggi, ma si rende conto che quelle poche righe non sono che un “cumulo di banalità” e decide di strappare e buttare via lo scritto in preda allo sconforto. Una parodia opposta dei moderni scrittori da best-seller di oggi, che non hanno nessun rimorso nel propagandare questa banale mediocrità (e qui mi porterò dietro tutte le ire dei sostenitori del genere).
John Fante
John Fante a differenza di Bukowski uno dei suoi più grandi ammiratori, ha una scrittura molto più scorrevole e pulita, sopratutto è evidente una grande abilità nel descrivere la scena, a raccogliere i particolari dei luoghi dove sono incentrati i fatti, le atmosfere tipiche americane. Non per nulla ebbe occasione di lavorare come sceneggiatore nella mitica Hollywood collaborando a più di una dozzina di film tra soggetti e sceneggiature dal 1935 fino agli anni sessanta.
Infatti nei capitoli seguenti sono godibili le descrizioni delle strade di Los Angeles dove emerge molto del suo potenziale nelle lunghe passeggiate riflessive del protagonista che sono un riflesso nitido e autobiografico. Notevole anche la descrizione di un tremendo terremoto a Long Beach Pike, dove il Bandini si ritrova a scavare ed estrarre corpi dalle macerie di rientro a Los Angeles, come redenzione per aver commesso adulterio con Vera Rivken, una donna sola e profondamente influenzata da alcune cicatrici che porta come una condanna sul suo corpo, ma dallo spiccato senso letterario che si tramuterà nella musa ispiratrice per la stesura del suo primo romanzo. Queste, che narrano  i punti di vista personali dello “scrittore” sono tra le migliori pagine del libro che vanno dall'undicesimo al quindicesimo capitolo, con le riflessioni in terza persona che aprono degli spiragli di pura poesia.
Quello che non mi ha molto convito è questa storia d'amore travagliata e poco efficiente a mio avviso, che si snoda tra questa gente aspra e polverosa, riportando nel fondo della mediocrità l'intero romanzo. La mia è solo l'opinione di un lettore comune, nulla di più. Non voglio demonizzare Fante o il suo libro, ho solo voluto riportare una mia personale veduta, alla luce di un'attenta lettura. Molto presto leggerò tutti i libri della saga “Bandini” e avrò il piacere di leggere anche i racconti di questo autore che merita in ogni caso tutta la nostra dovuta attenzione. 
Charles Bukowski era rimasto folgorato da questo libro negli anni settanta, trovando in Fante un modello umano e letterario. Secondo me è riuscito ad apprezzare gli spunti letterari citati e ha introdotto lo stile di Fante tra le sue righe dando al tutto quella carica aggressiva e diretta di cui aveva bisogno. Ad esempio potete trovare un racconto nel libro “Compagno di sbronze” di Bukoski che narra di questo Evans cattolico ossessivo con il vizio di scrivere lettere alla madre proprio come il personaggio descritto da Fante nel suo libro. Ironia e dolore si fanno spazio tra le righe di Fante, che Bukowski porta in alto al massimo livello con straordinaria semplicità e carisma.
In conclusione definire un eccelso capolavoro questo libro mi sembra davvero un'esagerazione, è senza dubbio un buon libro e Fante possiede delle grandi qualità, quelle di un buon scrittore. 


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