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mercoledì 17 settembre 2025

Il silenzio di Paolo, il grido di tutti noi


La notizia della morte di Paolo Mendico, un bambino che ha deciso di togliersi la vita a causa delle umiliazioni subite dai coetanei, è un pugno nello stomaco che lascia senza respiro. Ogni volta che accade, ci ripetiamo che non dovrebbe più succedere, che “mai più” dovrebbe essere la parola d’ordine. E invece il tempo passa, le commemorazioni si consumano, e tutto ritorna come prima.

Il bullismo continua a mietere vittime nel silenzio, con la crudeltà cieca e spietata di chi non conosce ancora la misura del dolore che infligge. Le istituzioni parlano, lanciano campagne, celebrano giornate contro la violenza tra i giovani, ma le parole evaporano nel vento se non diventano azione, presenza, educazione viva e concreta.

Viviamo in una società che ha dimenticato il valore della responsabilità collettiva. I ragazzi vengono lasciati soli, consegnati a schermi che amplificano l’odio, ad ambienti scolastici dove spesso l’indifferenza vale più della cura. Si parla di “generazione fragile”, ma fragili non nascono: fragili li rendiamo, con l’assenza degli adulti, con la superficialità di famiglie distratte e di una scuola che troppo spesso abdica al suo ruolo educativo.

In questo vuoto, il piccolo Paolo ha gridato con il silenzio il dolore che nessuno ha voluto ascoltare. Il suo gesto estremo non è solo il fallimento dei bulli che lo hanno tormentato, ma il fallimento di una comunità intera che non è stata capace di proteggerlo.

venerdì 29 agosto 2025

Cesare Pavese, 75 anni dopo: La ferita ancora aperta dei poeti del Novecento

Settantacinque anni fa, il 27 agosto 1950, Cesare Pavese sceglieva di togliersi la vita in una stanza d’albergo a Torino. Dieci bustine di sonniferi sul comodino, accanto ad una copia di Dialoghi con Leucò e ad alcuni biglietti che oggi suonano come colpi di martello sul silenzio della storia: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.»

Il gesto estremo di Pavese non fu un fulmine a ciel sereno. Il suo corpo portava dentro i segni di una fatica più profonda della stanchezza fisica: quella di vivere. La sua sensibilità, la sua capacità di ascoltare le pieghe più intime dell’animo umano, furono la sua grandezza ma anche la sua condanna. Pavese appartiene a quella schiera di poeti e scrittori del Novecento che hanno guardato troppo a lungo nell’abisso, finendo per soccombere.

La vulnerabilità dei poeti del Novecento

Il secolo scorso fu attraversato da guerre, dittature, disillusioni politiche, e i poeti ne furono spesso il termometro più sincero. A differenza di altri intellettuali, i poeti del ’900 non seppero – o non vollero – schermarsi dalla sofferenza. Non si tratta di debolezza, ma di una radicale vulnerabilità: la pelle sottile che permette di cogliere il respiro segreto del mondo diventa anche ferita sempre aperta.

Pavese condivide questo destino con figure come Dino Campana, Alda Merini, Amelia Rosselli, fino a Sylvia Plath e Paul Celan, fratelli e sorelle di dolore in una genealogia poetica segnata dal suicidio. La poesia del Novecento sembra quasi scritta con il sangue, con un’urgenza che oggi ci appare lontana, scolorita. Oggi viviamo in un’epoca che ha anestetizzato gran parte della propria sensibilità: i drammi esistono ancora, ma raramente trovano parole tanto necessarie e tanto incandescenti.

La morte come consacrazione

Paradossalmente, Pavese trovò nella morte quella considerazione che in vita non gli fu mai pienamente concessa. Seppure già noto come scrittore e traduttore, seppure stimato in ambito intellettuale, fu la tragedia della sua fine a farne un’icona. La morte, per certi autori, diventa un sigillo definitivo, un alone che li consegna all’eternità. È un fenomeno crudele: li celebriamo di più quando non ci sono più, quando non possono più sentirlo.

Pavese stesso, nei suoi diari, aveva intuito questa dinamica. In una delle ultime note de Il mestiere di vivere, scrive: «La letteratura è una difesa contro le offese della vita.» Ma la vita, alla fine, ebbe la meglio.

mercoledì 20 agosto 2025

5 libri da NON leggere dopo Ferragosto

 perché la vita è già abbastanza tragica di suo



Il 15 agosto 2025 è già passato da un pezzo. Ti sei ustionato, hai discusso con tuo zio sul prezzo dei cocomeri e ora vivi il trauma da rientro. In questo fragile equilibrio, la scelta del libro giusto può salvarti l’umore… o distruggerlo del tutto.
Ecco quindi la lista dei 5 libri da NON leggere dopo Ferragosto.

1. Le poesie di Flavia Vento

Dopo Ferragosto non sei pronto a interrogarti sul senso cosmico dell’amore espresso tramite versi che sembrano scritti da un unicorno sotto anfetamine. Tra l'altro dopo i suoi recenti post social dove ha dichiarato che la matematica non esiste. Rischi di rivalutare la poesia ermetica come “chiara e lineare”. Meglio una Settimana Enigmistica.



2. Il mondo al contrario – Roberto Vannacci

L’estate è già abbastanza piena di capovolgimenti: ombrelloni che volano col maestrale,
gelati che si sciolgono troppo presto, bilance che segnalano tre chili in più. Non serve anche un libro che ti spiega la vita… al contrario. Per quello c’è già il commercialista a settembre.



3. Never Flinch – Stephen King

King è sempre King, ma dopo Ferragosto non ti serve uno che ti ricorda di non battere ciglio davanti all’orrore. Tu sei già terrorizzato dall’estratto conto della banca e dalla mail con
scritto “riunione di allineamento”. Basta così.



4. La nausea – Jean-Paul Sartre

Hai ancora la peperonata di Ferragosto sullo stomaco e vorresti leggere un romanzo
esistenzialista? No. Rischi di confondere la nausea filosofica con quella da digestione lenta. Meglio una camomilla.